giovedì, dicembre 09, 2004

e adesso non guardate solo le figure;
Quando, poco dopo l'insediamento nella nuova cattedra universitaria di Filologia a Basilea,
tra l'inverno e la primavera del 1870, Nietzsche compose i testi delle due conferenze,
Il dramma musicale greco e Socrate e la tragedia, nonché il breve saggio
La visione dionisiaca del mondo, i temi della Nascita della
tragedia
(1872) erano già chiaramente sbozzati. In particolare, anche senza
l'impianto di richiami wagneriani dell'opera maggiore, era stato delineato il progetto di quella che
di lì a poco sarebbe stata chiamata scienza estetica, imperniata sulla opposizione
di due principi, l'apollineo e il dionisiaco.


Dall'originario antagonismo degli impulsi incarnati dalle due divinità, si sarebbe
passati, nel mondo greco, a una loro temporanea alleanza, a un legame di fratellanza
cui avrebbero posto termine la parola di Socrate e il teatro
di Euripide
[R. Dionigi, Il doppio cervello di Nietzsche, Bologna, 1982, p.11].
Di rilievo risultava, nell'analisi nietzscheana, proprio la connotazione del dionisiaco,
forse suggerita anche dalle suggestioni wagneriane del soggiorno
svizzero. Il dio era identificato, infatti, dai caratteri della festa che lo celebrava [Dionigi, ibidem]:
scatenamento di tutte le capacità simboliche, dell'intero simbolismo del corpo,
con la simultanea, prorompente esplosione di danza, mimica, canto, grido, musica.
Come sottolineava l'autore, cantando e danzando gli uomini avevano disimparato a parlare e
camminare, liberando poi nel grido e nella musica la propria corporeità e
istintualità, attivando dunque
ogni possibilità simbolica
: i suoni si riflettevano nei moti senza scopo del corpo.


L'ebbrezza, effetto delle pozioni e dell'irrefrenabile impulso primaverile, trasponeva
quindi il seguace del dio in quell'universo di movimenti, canti e musica, dove l'uomo si faceva
non più artista ma opera d'arte, compiuta e sospesa. Come lo stesso Nietzsche rileva, in conclusione
della Nascita della tragedia, tale esperienza di pienezza, in cui si incontrano gioia e
dolore, richiama il gioco insensato e ripetuto, la innocenza al riparo da qualsiasi imputazione morale,
del fanciullo dei mondi Zeus nel frammento DK B52 di
Eraclito:


l'evo è un fanciullo che gioca spostando qua e là
i pezzi del gioco: un regno di fanciullo
[La filosofia nell'età tragica dei Greci].

In effetti, la fratellanza intrecciata con il dio plastico della misura e dell'ordine trasforma
il dionisiaco: la festa diventa teatro [Dionigi, op.cit., p.20].
In questa metamorfosi il ruolo decisivo è quello della genialità artistica,
che ritroviamo alle radici dell'apollineo, come capacità di superamento del
disgusto che l'esperienza dionisiaca induce nei confronti della quotidianità
dell'esistenza, all'interno del mondo della individuazione; come traduzione, quindi
della negatività esistenziale in una volontà positiva di costruzione [S. Lo Giudice,
Introduzione al lessico di Nietzsche, Roma, 1990, p.18]. Lo splendore del mondo olimpico
sarebbe, nella ricostruzione nietzscheana, appunto il risultato della trasfigurazione apollinea,
della riconciliazione con l'esistente, attraverso cui il genio trasforma la realtà
umana in oggetto di desiderio, carico di attrattive che stimolano la creatività umana
[S. Lo Giudice, ibidem]. Così il genio diventa fenomeno dionisiaco:

[Nel genio] dobbiamo riconoscere un fenomeno dionisiaco, il quale ci rivela ogni volta
di nuovo il gioco di costruzione e distribuzione del mondo individuale come l'efflusso
di una gioia primordiale [La nascita della tragedia].

Questo rivelerà, in ultima analisi, la natura dell'arte, tragica soprattutto, come
liberazione del e dal dionisiaco [per questo cfr. G. Vattimo, Il soggetto e la maschera,
Milano, 1974, cap. 2], come prolungamento, all'interno delle definite individuazioni proprie
della bella apparenza apollinea, della forza dirompente del dionisiaco. In tale prospettiva
si delineerà allora anche il rovesciamento della prospettiva schopenhaueriana
dell'arte come sospensione della e fuga dalla individuale volontà di vivere,
che costituisce uno degli elementi di originalità nella posizione del giovane filologo
rispetto alla figura del venerando filosofo.

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